martedì 26 settembre 2023

Banche e reputazione in provincia di Frosinone

Per le banche la reputazione è molto importante, quasi fondamentale. E' per questo che gli istituti di credito vi prestano una grande attenzione. La buona reputazione, infatti, genera fiducia e di conseguenza attira nuovi clienti, fidelizza quelli esistenti e crea un giusto clima, indispensabile per una attività di servizi come la banca.

Ma com'è la situazione in provincia di Frosinone? Andiamo a capirlo attraverso questo studio basato su dati Google e Trustpilot.it. Questo studio non ha l'ambizione di essere esauriente perchè per "misurare" la reputazione c'è bisogno di una serie di fattori che, purtroppo, non abbiamo a completa disposizione. Però un'idea di massima ce la possiamo fare.

Buona lettura

Banche e reputazione in formato powerpoint online

Banche e reputazione in formato pdf

giovedì 24 agosto 2023

INTERVISTA AD ALESSIO STORACE SEGRETARIO PROVINCIALE UNISIN

Di seguito pubblichiamo l'intervista sulla desertificazione bancaria rilasciata alla testata "Amaseno News"

https://amasenonews.it/2023/08/24/intervista-ad-alessio-storace-segretario-provinciale-unsin/

Siamo con Alessio Storace, Segretario Provinciale del sindacato dei bancari Unsin,

da sempre impegnato sul fronte della desertificazione bancaria con tanti studi che

ne testimoniano l’impegno.

Com'è la situazione bancaria nella valle dell’Amaseno?

Possiamo dividere la situazione in due: per quanto riguarda la provincia di Latina

la situazione non è pesantissima, per quel che concerne i comuni della provincia di

Frosinone siamo in piena emergenza.

Si spieghi meglio.

Se consideriamo un periodo di tempo lungo, ad esempio, dieci anni, nei comuni

della provincia di Frosinone abbiamo visto chiudere ben 6 sportelli di cui due a

Ceccano, uno ad Amaseno, uno a Castro dei Volsci.

E poi abbiamo visto la desertificazione di Giuliano di Roma e di Vallecorsa,

mentre Villa Santo Stefano non ha mai avuto uno sportello bancario.

Quindi una situazione molto grave.

lunedì 14 agosto 2023

SALARIO MINIMO: E SE LA SOLUZIONE FOSSE IL CNEL?

Sta entrando nel vivo il dibattito sul salario minimo ed il recente incontro tra governo ed opposizione è una plastica rappresentazione che l’argomento è vivo e sentito, al punto da essere affrontato dalla politica fuori dalle aule del Parlamento.
Le posizioni in campo sono chiare, da una parte l’opposizione, con a capo il PD, che reclama un salario minimo di 9 euro/ora per difendere gli oltre 3 milioni di lavoratori poveri che sono sotto quella soglia. Intento nobile, peccato, però, che lo stesso PD non spiega se questi lavoratori poveri sono apparsi improvvisamente negli ultimi 10-11 mesi, oppure ci sono da anni (e questa è la verità) ed il PD stesso non ha mai sentito l’esigenza di fare un provvedimento del genere nonostante abbia governato per dieci anni negli ultimi undici.
Dall’altra parte abbiamo un governo che difende i contratti collettivi e nella citata riunione ha chiamato in causa il CNEL come consulente e luogo istituzionalmente idoneo ad affrontare il dibattito, o meglio, luogo dove sono rappresentate tutte le forze sociali, sia sindacali che dei datori di lavoro per intenderci.
Ovviamente, da sindacalista, plaudo al fatto che i lavoratori poveri sono entrati al centro del dibattito politico, finalmente direi, ma ho una mia idea sul fenomeno e sulla soluzione.
Quando il lavoratore è povero? Sicuramente quando è senza tutele e questo accade principalmente in due circostanze, o lavora in nero o l’azienda che lo assume in regola applica un “contratto pirata”, ovvero un contratto di comodo firmato generalmente da una parte datoriale e da ua sola organizzazione sindacale, la quale trarrà chissà quali benefici da quella firma. Nel primo caso, il lavoro nero, parliamo di un problema molto vecchio e, nonostante qualche tentativo, mai completamente risolto, o mai affrontato con la determinazione che merita. Eppure basterebbe potenziare i controlli sul territorio per far emergere le irregolarità, ma il discorso è oggettivamente molto complesso perchè a volte il lavoro nero nasconde altro, basta pensare al fenomeno dal caporalato nell’agricoltura del sud e del labile confine esistente tra questa vera e propria piaga e la malavita. Un vero campo minato, molto difficile in questo caso da affrontare con gli strumenti legislativi a disposizione.
Dall’altro lato, dicevamo, abbiamo i contratti pirata, e ne sono coinvolti molti lavoratori. Ê sotto gli occhi di tutti che i CCNL sono l’unico strumento valido per difendere sia il salario che, aggiungerei, la dignità dei lavoratori, ma purtroppo i contratti pirata esistono e girare la testa dall’altra parte e far finta di nulla non serve a niente, anzi serve solo a far finta di tollerare la situazione alimentandola e rafforzandola. Oggi come oggi pensare di risolvere il problema con l’introduzione di un salario minimo avrebbe l’effetto di indebolire i CCNL, soprattutto in quelle categorie laddove è già difficile contrattare, quante associazioni datoriali si trincererebbero dietro al salario minimo per non discutere gli aspetti economici di un rinnovo contrattuale? Quante associazioni datoriali vorrebbero veder nascere il salario minimo per poterlo applicare, essere in regola e, al contempo, ottenere un risparmio sul costo del lavoro? Chi ci garantisce che il salario minimo un domani non diventi il salario di riferimento?
Sono domande legittime che ci poniamo soprattutto alla luce del fatto che proprio al CNEL sono depositati più di mille contratti ma il 57% sono scaduti, per quasi otto milioni di lavoratori, e la maggior parte riguarda il settore privato.
Ma è proprio il CNEL che deve avere maggiori poteri di vigilanza sui contratti pirata. E’ il CNEL, con l’ampia rappresentatività esistente al suo interno, che dovrebbe mettere un bollino di certificazione ad ogni CCNL e stabilire quale è regolare, quindi applicabile, e quale pirata, quindi assolutamente da non applicare. Così facendo si avrebbe un ente terzo che va ad analizzare ex-post ciò che accade in ogni categoria, ed in ogni rinnovo di CCNL, con la forza dei suoi studi e conoscenza della tematica.
E, non da ultimo, c’è da credere che verrebbero anche sfoltiti gli oltre mille CCNL attualmente esistenti e che tanti, in realtà, sono contratti fotocopia firmati da soggetti diversi.

mercoledì 1 marzo 2023

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA DESERTIFICAZIONE BANCARIA

Si è portati a credere che l’unico compito del sindacalista sia quello di difendere i diritti del lavoratori, ma non è così, o almeno non deve fare solo quello.

Parto dal presupposto che un sindacalista deve agire seguendo tre direttive principali: difesa dell’occupazione,  difesa delle retribuzioni e difesa della professionalità. Ebbene seguendo questo ordine di principi ne deriva che la difesa dei diritti dei lavoratori sia un aspetto, sicuramente importante, ma non l’unico.

Faccio un esempio, tremendamente attuale, se una banca ha cinque sportelli in una provincia e decide di accorparli in un’unica filiale, cosa accade? Tutti i lavoratori vengono destinati all’unica filiale superstite, quindi il livello occupazionale è stato salvato, anche il livello retributivo è salvo, ancorchè qualche lavoratore avrebbe maggiori spese di trasferimento, non sempre adeguatamente ricompensate dalla banca. L’unico aspetto che resterebbe in piedi è la difesa della professionalità, ma anche su quel fronte spesso le soluzioni si trovano … e allora?

E allora continuo a pensare che, come sindacalista, il tutto non mi soddisfa e le soluzioni che si trovano sono valide, ma comunque posticce, artefatte, e nascondono sotto il tappeto un problema enorme che prima o poi dovremo affrontare.

La desertificazione bancaria, ovvero l’abbandono dei piccoli e medi comuni da parte degli istituti di credito, non ha un impatto solo sui dipendenti che devono sobbarcarsi pochi o tanti chilometri in più, ma ha un effetto importante, a volte devastante sulle comunità locali, su quei piccoli e medi comuni i quali vedono privarsi di una istituzione importante come la banca, spesso anche con un preavviso di pochissimi giorni.

Ebbene, in queste realtà la chiusura di una banca porta, come effetto immediato la non considerazione di quel comune da parte di qualche volenteroso imprenditore intenzionato ad investire. Non lo farà mai in un territorio che di suo offre già, in prima battuta, un evidente disservizio.

Non bastasse questo alcune attività che possono permetterselo, ovviamente non mi riferisco alle botteghe di artigiani, agli alimentari o ai servizi di ricettività, studiano di portare altrove il loro business, a volte mettendo in difficoltà i loro lavoratori, e non so quanto tutto ciò sia criticabile.

Per non parlare del rischio, purtroppo alto e mai adeguatamente affrontato, che la desertificazione bancaria lascia il campo libero alla malavita e alla criminalità che potrebbe prosperare grazie alle attività usurarie, con il concreto rischio che tutto ciò metta in ginocchio le attività presenti ed i lavoratori interessati.

E tutto questo si traduce in perdita di posti di lavoro e depressione di un territorio, spesso senza colpe dirette.

Ora non so se questa mia analisi sia giusta e condivisa, ma è il mio pensiero frutto di due decenni di sindacalismo e di molti anni di studio e di impegno contro la desertificazione bancaria. La chiusura delle filiali non è mai fine a se stessa e coinvolge, in un modo o nell’altro, un territorio che ne trae solo aspetti negativi, in netta contraddizione ai proclami delle banche sulla Responsabilità Sociale di Impresa.

Da sindacalista non posso girarmi dall’altra parte e fare finta di niente, ignorare il problema, non fa per me. Ecco perché quando il consigliere comunale di Atina, Quirino Di Paolo, mi ha cercato per espormi la preoccupazione sua e di tutta la comunità circa la chiusura della filiale di Banca Intesa, ho dato senza tentennamenti ed esitazioni la mia più totale adesione. E proprio lì, ad Atina, ho avuto la conferma del mio pensiero nel vedere centinaia di persone accorrere per firmare la petizione, alcuni hanno fermato la macchina, hanno firmato e sono velocemente ripartite, ma volevano dare la loro testimonianza in maniera concreta. Centinaia di cittadini, non tutti correntisti di Banca Intesa, arrabbiati che hanno voluto concretamente, e civilmente, protestare per la perdita di un pezzo di storia del loro territorio. Da tanti di loro ho sentito riferimenti che risalivano addirittura a quando la banca era “Banco di Napoli”, archeologia del credito.

Ma se quello che sta succedendo ad Atina è grave, quello che a luglio accadrà a Boville Ernica sarà gravissimo, perché Banca Intesa andrà a chiudere l’unica filiale del comune, desertificandolo dai servizi bancari.

Da sindacalista sono stato ad Atina, andrò a Boville Ernica e garantirò la mia presenza ovunque si deciderà di combattere a difesa del territorio.

domenica 1 gennaio 2023

Il discorso di Ratisbona di Papa Benedetto XVI

 Qui di seguito riporto la versione integrale del famoso discorso di Ratisbona di Papa Benedetto XVI

Eminenze, magnificenze, eccellenze, illustri signori, gentili signore!

È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era - nel 1959 - ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un'esperienza di universitas  - una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa - l'esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione - questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva - di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.